PalaSojourner
 

Una volta conquistata la promozione in serie A, il primo grosso problema fu rappresentato dall’assenza di un adeguato campo da gioco. Infatti il Palazzetto dello Sport di Piazzale Leoni, nato nel 1970 come palestra scolastica coperta, ma anche per venire incontro alle esigenze della Sebastiani, non era omologato per la serie A.
«E’ bello ma è troppo piccolo, caro Provveditore» commentò dopo una delle prime partite di serie C disputate dalla Snia nell’impianto di Piazzale Leoni, l’ingegnere capo del Comune, Gustavo De Benedictis, rivolgendosi al Provveditore agli studi, Luigi Minervini, grande appassionato di basket, col quale tanto aveva collaborato per realizzare quel primo impianto. Fu un facile profeta. Infatti, in seguito alla promozione in serie A l’esigenza di dotare la città di un impianto di grande capienza per manifestazioni sportive e non diventò improcrastinabile. Però, nonostante la necessità derivante dal fatto che la AMG Sebastiani doveva disputare il campionato di serie A a Roma, gli enti pubblici non si decidevano a muovere i passi necessari, anche perchè lamentavano scarsezza di fondi. 
A questo punto Milardi prese in mano l’iniziativa e, dopo aver commissionato il progetto del nuovo palasport, acquistò di tasca propria il cemento e i materiali necessari per costruire i gradoni, soprattutto per evitare che i costi lievitassero di giorno in giorno.
Il tutto, previo accordo verbale, venne depositato su un terreno di proprietà della Cassa di Risparmio, in zona Campoloniano. Inoltre, erano già state incaricate della costruzione le ditte di Giuliano Roversi e Rinaldo Giovannelli: due imprenditori sportivissimi (Roversi era stato uno dei primi pivot della Sebastiani negli anni ’60).
Ma chi disponeva dei capitali per realizzare un’opera del genere se non la Cassa di Risparmio, chiamata per istituto a reinvestire sul territorio in opere sociali gli utili accumulati? Esisteva però il rischio che la banca non accondiscendesse e che Milardi rischiasse di perdere le ingenti somme anticipate. Inoltre, c’era anche l’aspetto riguardante il Comune, sia per le autorizzazioni necessarie che per una serie di polemiche tra chi premeva per l’urgenza di costruire il nuovo palasport e chi sosteneva che sulla stessa area era stato previsto di realizzare una casa di riposo per anziani o, comunque, di investire nel sociale i fondi necessari.
Il presidente della Cassa di Risparmio, avv. Giustino De Sanctis, che ne presiedeva il Consiglio Direttivo (non esisteva ancora la Fondazione) doveva prendere in fretta delle decisioni importanti. Tra l’altro, anche tra i suoi più stretti collaboratori c’erano convinti appassionati di basket. Uno di questi era certamente il vicedirettore generale, Alido Tozzi, mentre tra i dipendenti, la partecipazione sugli spalti era massiccia. Inoltre non va dimenticato Italo Di Fazi, dipendente della Cassa di Risparmio, che non tralasciava per un momento di battere il ferro, ogni giorno sempre più caldo, del palasport.
«Di Fazi – racconta Gianfranco Lombardi –  adottò la tattica della goccia. Mentre Milardi lavorava sul piano politico e istituzionale, Italo più semplicemente massacrò il presidente De Sanctis finché questi un giorno esclamò ‘Devo fare il palazzo dello sport perché voglio vivere!’. Una vera volpe Italo».
Fu determinante anche il parere del sindaco Piero Aloisi che suggerì di non mettersi di traverso alla pressione di un’opinione pubblica molto determinata nel chiedere il palasport.
Prima di annunciare che la Cassa di Risparmio assumeva su di sé tutti gli oneri conseguenti alla realizzazione dell’opera, il Consiglio Direttivo, sulla base delle indicazioni fornite dal prof. Rosario Nicolò, docente di diritto civile e amministrativo, stilò una convenzione molto onerosa per la Sebastiani, obbligata ad assumere pesanti impegni di garanzia, e così Milardi fu rimborsato delle fatture presentate. Erano comunque altri tempi perché, in ogni caso, gli Enti pubblici non contribuirono assolutamente sotto l’aspetto economico. Ma la notizia buona era che finalmente la costruzione del palasport poteva iniziare.
Nonostante i lavori procedessero alacremente, l’impianto fu ultimato soltanto per la quinta giornata di andata del secondo campionato di serie A (che nel frattempo era diventata A1) per cui, dopo un’ulteriore partita d’esilio al PalaEur, domenica 27 Ottobre 1974, la Brina poté esordire finalmente nel nuovo impianto di Campoloniano, ospitando gli eterni rivali del Sapori Siena, grande antagonista durante il campionato della promozione in serie A e salita anch’essa nel massimo campionato insieme a Rieti.
Però, il sabato precedente la partita di esordio fu veramente tremendo perché il tabellone elettronico (cronometro e segnapunti) non funzionava ancora. Come ricorda Attilio Pasquetti: “In quel periodo i tabelloni erano normalmente importati dagli U.S.A. con grande difficoltà di reperimento e di costi per via del pagamento anticipato. Del resto eravamo nel 1974. Fu così che lanciai a Di Fazi l’idea di realizzarlo in casa, alla Texas Instruments, per la quale lavoravo. L’idea fu subito raccolta da due giovani ingegneri: Emanuele Accolla, siciliano, poi Amministratore Delegato della Acer italia Spa, e il reatino Ninni Mozzetti, che ci lavorarono più di due mesi. Tutto sembrò andare liscio ma quando il sabato mattina, prima della partita con Siena, lo finimmo di installare non funzionava più nulla. Si decise così di rifare il collegamento tra tutte le parti, ma occorreva un cavo speciale che non avevamo. Poi, all’improvviso, come d’incanto, apparvero 400 metri di cavo a mille vie della SIP che qualcuno, non sò come, riuscì a procurare. Alle 11 di sera tutto fu nuovamente collegato e provammo di nuovo ma non funzionava niente. Faceva un freddo terribile dentro l’intercapedine di lamiera del palasport. Dopo 20 ore di lavoro decidemmo di andare a dormire a casa di Accolla, che era scapolo e viveva a Santa Rufina. Intorno alle quattro del mattino Emanuele ci svegliò dicendo che forse aveva intuito quale fosse il problema. Tornammo di corsa al Palasport, sostituimmo degli integrati e accendemmo il quadro. Ricordo ancora, nel buio del palazzo, quei numeri formati da tante lampadine. Erano giganteschi. Finalmente l’orologio andava avanti, si fermava, tornava indietro e la sirena risuonava fortemente nel palasport ancora vuoto. Ora tutto era veramente pronto per la prima partita di serie A a Rieti.
Il primo canestro ufficiale nel nuovo impianto lo segnò Massimo Masini, naturalmente in gancio, nel canestro opposto alla curva Terminillo. La partita, tra due maniaci della tattica come Lombardi e il suo rivale Cardaioli, ovviamente a basso punteggio, fu vinta dalla Brina 65-62.
Visti gli strettissimi tempi di lavorazione il  palasport di Campoloniano era un struttura utile ma grezza, a cominciare dall’assenza delle poltroncine (aggiunte in un secondo momento diversi anni dopo) e che, per decenni, costrinse i tifosi a sedersi su tutto: cuscini, coperte, giornali portati da casa, ovviamente anche giacche e cappotti. Non  mancavano però anche i coraggiosi che sedevano sul nudo e gelido cemento.
A proposito, l’impianto di riscaldamento per tantissimi anni non poté mai funzionare al meglio, sia per qualche limite progettuale, sia per l’usura del tempo, ma anche perché quella struttura prefabbricata, con varie parti assemblate, era una miniera di spifferi. Soprattutto dal tetto, semplicemente appoggiato sulla struttura in cemento. Willie Sojourner ci si allenava con i guanti! Si provò anche a chiuderli questi spifferi, ma in giornate particolari si creava della pericolosa condensa sul parquet.
A proposito, il fondo del Palaloniano fu realizzato con un pregiato legno delle foreste del Borneo che, rattoppi a parte qua e là, nel 2009 è ancora quello, e molto elastico.
A proposito di rattoppi, a causa di una questione relativa ai costi di gestione che non vale la pena ricordare, dal 1991 al settembre 1994 il Palaloniano rimase chiuso e la Sebastiani, disputò i relativi campionati di B2 al PalaLeoni. Fu agghiacciante quello che apparve la sopralluogo di riapertura: sporcizia; topi; vetri rotti; uccelli che avevano nidificato (e non solo…) ovunque; impianti idrico, elettrico e di riscaldamento a pezzi; infiltrazioni d’acqua dal soffitto che avevano fatto rialzare il parquet di almeno un metro in un’area di circa 10 metri quadrati al centro del campo. Nel frattempo, il campionato di B1, in cui la Sebastiani era appena ritornata, bussava alle porte, così come l’autunno. Perciò, fino a novembre inoltrato, furono piazzati quattro bruciatori a kerosene ai lati del parquet mentre la squadra si allenava e mentre gli operai riparavano il palasport. Durante le partite di campionato però, col pubblico, i bruciatori dovevano stare spenti, Pertanto, qualche ora prima della partita i bruciatori venivano accesi per riscaldare l’ambiente. Purtroppo però l’aria calda saliva vero l’alto dove, c’erano i famosi spifferi, e così a metà partita si tornava a crepare dal freddo, Per fortuna durò solo un mese mezzo.
E’ superfluo dire che per almeno 25 anni le misure di sicurezza sono state grande problema di dibattito. Non solo quelle per proteggere i giocatori da eventuali intemperanze del pubblico, ma soprattutto quelle relative alle uscite di sicurezza che per un’eternità sono state l’ostacolo per l’omologozione dell’impianto al fine di consentire la partecipazione ai campionati di massimo livello.
Negli anni ’70, si sono viste folle impressionanti all’interno del Palasport, con il pubblico in piedi in quarta o quinta fila dietro ai canestri, gente assiepata in piedi sull’ultimo anello superiore, più quelli seduti sulle varie scalinate di accesso a impedire di spostarsi a quelli seduti sulle tribune. In qualche occasione vi furono sicuramente stipate 4500/5000 persone e forse anche qualcosa di più. Oggi sarebbe impossibile. 
I limiti della struttura grezza, naturalmente si riscontravano anche negli spogliatoi, veramente spartani. Tra l’altro, i muri del lato a nord, esposti all’aria del Terminillo, dove non ci ha mai battuto la luce del sole, per decenni hanno sofferto seri problemi di umidità.
E cosa dire della tribuna stampa che, dai comodissimi seggiolini di fronte al parterre che permettevano di entrare direttamente sul parquet, nei decenni è stata traslocata un po’ ovunque, fino alla scomodissima piccionaia, più o meno dall’inizio del nuovo secolo fino al restyling del 2007, dopo la promozione in serie A?
E cosa dire del parcheggio, che per almeno trent’anni non è stato altro che una spianata di terra e sassi destinata a diventare un pantano quando pioveva?
Infine il nome. Fino al 1980 circa era semplicemente il palasport, o palazzo, mentre il palazzetto era quello vicino al Campo Scuola. Poi si cominciò a chiamarlo Palaloniano, e fu un’idea di Attilio Pasquetti. Quindi, e questo non avremmo mai voluto che accadesse, è diventato purtroppo PalaSojourner. Che diventa PalaSojournèr, con l’accento alla francese sulla ultima e, quando qualche forestiero, che vi si reca per manifestazioni di carattere non cestistico, chiede informazioni in cerca dell’ubicazione.     
Più di una volta qualcuno ha esclamato: Invece di restaurarlo, sarebbe meglio buttarlo giù e rifarlo nuovo! Magari anche da un’altra parte. Eppure, questa struttura, nel frattempo divenuta proprietà della Provincia di Rieti che ha profuso ingenti investimenti per rimodernarla adeguatamente, è uno dei luoghi i cui è stata scritta un piccola parte della storia della pallacanestro nazionale. E non aspetta altro che nuove pagine vi vengano ancora immortalate.

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1974: IL PALASPORT DI CAMPOLONIANO
27 OTTOBRE 1974 INAUGURAZIONE DEL PALASPORT DI CAMPOLONIANO
E LA SICUREZZA?
FACEVA FREDDO AL PALASPORT
GINO COLANTONI
GRATTACAPI
IL PRIMO CUSTODE DEL PALASPORT
IL PRIMO SPEAKER
LA PRIMA PROTEZIONE DELLE PANCHINE
LA PRIMA TRIBUNA STAMPA
NESSUNA PROTEZIONE PER LA PANCHINA DI CASA
PIERO FONTANI
TIFOSI ASSIEPATI DIETRO I CANESTRI
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